LA PAROLA AI GIURATI
 

1) IL PROF. DI IORIO
 
 

Inizio il mio dire con l'esporre due mormorazioni riguardanti 1'inclusione della mia persona nella Giuria: che non si doveva mai scegliere come giurato un tale maestro di latino, il quale, a causa della sua mentalità di Brotgelehrter, non potrebbe che assolvere il poeta Ovidio; che un giudice nato a Sulmona e ivi residente da sempre potrebbe essere accusato di parzialità e fa voritismo nel giudicare il suo Ovidio.
Rispondo che in questo momento mi libero da tut to ciò che potrebbe anche lontanamente turbare la mia coscienza di giudice e che parlerò sine ira et studio.
Abbiamo udito dall'accusatore, il Prof. Lasku, che Ovidio stesso ammise le sue colpe, carmen et error, che, quindi, non dovrebbero esservi dubbi sulle sue re sponsabilità.
Ritengo che quella ammissione non poteva non es sere fatta da parte di chi con umilta chiedeva clemenza all'onnipotente Augusto, il quale con un cenno dispo neva della vita di un uomo.
Dei capi d'accusa presentati nessuno mi pare così grave da meritare l'esilio, che in quei tempi poteva ad dirittura sostituire la pena capitale, e nessuno pub es sere accertato con prove irrefutabili. A mio modo di ve dere la colpa di Ovidio, se ci fu, consistette nell'appartenere al circolo letterario di Messalla, del quale face vano parte anche repubblicaneggianti e oppositori del tempo. Il suo esilio si ricollega alla crisi degli ultimi anni del principato, quando il problema della successione era diventato un incubo per Augusto, anche a causa delle opposizioni.
Invece di colpire i potenti nobiles delle vetuste fa miglie romane, che facevano la fronda, che stimavano Augusto come un parvenu, e volutamente non prende vano parte al cursus honorum Augusto volle dare un terribile esempio, che fosse una remora per tutti, e non accuse forse anche confuse e oscure riversò la sua ira sul poeta, tenerorum lusor amorum, estraneo agli intri ghi della politica, perchè faceva parte della compagnia di quelli e perchè era debole e non avrebbe rnai potuto reagire politicarnente.
La condanna fu un atto di disumana tirannia: non c'era stata nè !aesa maiestas nè iniuria: ma quale torto reaalmente arrebbe potuto compiere contro il Numen Imperatoris un uomo che di sè affermo compiaciuto: vita verecunda est, musa iocosa mihi (Tristia. II, 3, 16)? Per questo mi dichiaro favorevole alla completa as soluzione del poeta Ovidio e non lo ritengo colpevole di alcun crimen.
II nostro verdetto sia una riparazione per le cose tristi che il poeta ebbe a soffrire nella lontana Tomi.
Infine a lui, che fu sempre angosciato dal pensiero della morte in terra straniera e barbara e che per que sto senti piti greve ii peso dell'esilio, dopo la solenne assoluzione fatta da noi in questa assise, sicuri che la nostra pia voce varcherà le soglie inaccessibili degli In feri e sara ascoltata nel nobile castello delle grandi ombre del passato, dove vive il suo spirito di esule ancora, toto corde diciamo:

"SIT TIBI TERRA LEVIS"